In questa pagina troverai informazioni utili nel caso in cui, oltre a voler denunciare il tuo partner o a chiedere la separazione o il divorzio, non sei una cittadina italiana, sei priva di un regolare titolo di soggiorno o quest’ultimo è legato a quello del compagno.
La violenza domestica davvero non conosce nazionalità, ceto sociale, o religione. Tuttavia, se non sei nata nel paese in cui vivi o comunque non hai ottenuto la cittadinanza o il permesso di soggiorno richiesto, la tua situazione potrebbe essere, purtroppo, più complessa rispetto a quella di una donna italiana.
Le riprovevoli leggi sull’immigrazione che si sono succedute negli ultimi anni nel nostro paese non hanno di certo aiutato, rendendo sempre più faticosa la strada per ottenere un regolare titolo di soggiorno. Se a questo tipo di difficoltà si aggiungono le conseguenze di una relazione violenta, è indubbiamente richiesta una maggiore attenzione e sostegno.
Da donna e migrante potresti subire una discriminazione su diversi fronti, in quanto:
Tutto questo ovviamente oltre agli ostacoli della lingua, dell’isolamento, del timore della condanna da parte della comunità con i quali ti trovi a doverti misurare tutti i giorni.
Alla luce di questo riteniamo che un primo consiglio che possiamo darti è quello di rivolgerti ad una mediatrice culturale. Che cosa è una mediatrice culturale? Si tratta di una figura professionale che ha il compito di facilitare l’inserimento dei cittadini stranieri nel contesto sociale del paese di accoglienza, esercitando la funzione di tramite fra i bisogni delle persone migranti e le risposte offerte dai servizi pubblici.[1] Dalla mediatrice potrai ricevere consigli e assistenza per iniziare questo percorso certamente non facile. Mediatrici culturali possono essere presenti, ad esempio, in consultori familiari o in centri anti-violenza. Qui puoi trovare qualche informazione in più per quanto riguarda la regione Lazio, insieme ad alcuni numeri verdi che sono attivi in più lingue.
Esistono alcune aree di diritto internazionale in cui il tema della violenza domestica si interseca con quello dell’immigrazione. L’Italia ha firmato insieme ad altri paesi europei la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul).
Questa Convenzione caratterizza la violenza contro le donne come una violazione dei diritti umani e come una forma di discriminazione. In particolare per quanto riguarda le donne migranti e rifugiate, la Convenzione prevede un impegno da parte degli Stati membri a prendere misure per garantire che la violenza di genere contro le donne possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione, e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare, ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite Relativa allo Status dei Rifugiati del 1951.
La Convenzione riconosce in maniera compiuta e abbastanza soddisfacente, in presenza di determinate condizioni, il diritto della donna migrante vittima di violenza a vedersi riconosciuta la possibilità - nel caso in cui il suo status di residente dipenda da quello del coniuge autore della violenza nei suoi confronti - ad ottenere un titolo autonomo di soggiorno.
Tuttavia, per sapere quali sono i tuoi diritti nel concreto è necessario fare riferimento al diritto italiano che implementa questa Convenzione a livello nazionale, in particolare all’art. 4 della legge 119/2013, che ha inserito nel testo unico sull’immigrazione (d.lgs 286/1998) la relativa norma (art. 18 bis).
Secondo questa norma, in determinate circostanze il questore – con il parere favorevole dell’autorità giudiziaria o su proposta di quest’ultima – rilascia un permesso di soggiorno per consentire alla vittima straniera, priva di permesso di soggiorno, di sottrarsi alla violenza quando siano accertate situazioni di violenza o abuso e emerga un concreto e attuale pericolo per la sua incolumità.
Più specificamente, questo “permesso di soggiorno per le vittime di violenza domestica” viene rilasciato dalla Questura quando sono presenti tutte le seguenti circostanze, ossia:
Il permesso potrà essere rilasciato anche se le situazioni di violenza o abuso emergano nel corso di interventi assistenziali dei centri antiviolenza, dei servizi sociali territoriali o dei servizi sociali specializzati nell’assistenza delle vittime di violenza a cui puoi rivolgerti.
Il permesso ha la durata di 1 anno e consente tra l’altro l’accesso ai servizi assistenziali e allo studio e lo svolgimento di lavoro subordinato e autonomo. Alla scadenza dell’anno, il permesso può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato o autonomo oppure in permesso di soggiorno per motivi di studio.
Notiamo che la norma è stata criticata come contraria alla Convenzione di Istanbul, soprattutto perché richiede un pericolo grave e attuale all’incolumità della donna. Inoltre, il pericolo deve derivare dalla scelta di sottrarsi alla violenza o quale conseguenza delle dichiarazioni rese, requisito che di fatto fa dipendere la possibilità di avere un autonomo titolo di soggiorno dall’attiva partecipazione al processo penale.
[1] Definizione INVALSI, Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di istruzione e educazione.
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